In un articolato provvedimento, il tribunale di Velletri è intervenuto sulla questione del riparto dell’onere della prova nell’ambito di in giudizio avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento orale.
Invero, il contrasto interpretativo in ordine alla parte cui spetti fornire la prova della sussistenza del licenziamento nelle controversie in cui vengano postulate spettanze nascenti da tale atto giuridico, ritiene il decidente che gravi sul lavoratore che agisce in giudizio l’onere di provare la situazione di fatto posta a fondamento del diritto.Secondo un indirizzo interpretativo la prova gravante sul lavoratore sarebbe “limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, cod. civ.” (cfr., per tutte, Cass. 13 aprile 2000, n. 4760 e, più di recente, Cass. n. 7614 del 13 aprile 2005, la quale ha rimarcato come l’indagine del giudice del merito deve essere particolarmente rigorosa, data la rilevanza dell’accertamento rimessogli, e Cass. n. 18087 del 27 agosto 2007). Per contro, risulta maggiormente coerente al sistema ordinamentale il diverso indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il lavoratore, il quale deduca che il rapporto di lavoro abbia avuto conclusione a causa del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro, e impugni l’allegato licenziamento, ha l’onere di provare il licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere, mentre non è sostenibile che spetti al datore di lavoro provare che il rapporto, al contrario, sia terminato a causa di un abbandono del posto di lavoro da parte del lavoratore (cfr. Cass. 27 luglio 2000, n. 9843 e Cass. 21 settembre 2000, n. 12520 e, da ultimo, Cass. n. 21607 del 16 ottobre 2007 e Cass. n. 18523 del 9 settembre 2011). Sotto tale profilo, la Suprema Corte, nella citata pronuncia n. 9843/2000, ha evidenziato come la contrapposta tesi interpretativa, secondo cui l’abbandono del posto di lavoro costituisce solo una premessa di una possibile lecita e legittima risoluzione, ma non la risoluzione stessa, la cui prova, quale fatto estintivo del rapporto, incomberebbe sulla parte datoriale, “benché suggestiva, non convince perché … si fonda, complessivamente, su un errore di diritto, in quanto è diretta, senza alcuna giustificazione normativa, ad esonerare dalla prova del fatto costitutivo della domanda colui che ne pretende l’accoglimento, trasferendo l’onere anticipato della prova contraria alla controparte”. Approfondendo questo tema di indagine, la motivazione seguita dai Giudici di legittimità ha precisato che, anche a volere ritenere che l’onere probatorio che si configura in capo al lavoratore concerna un fatto negativo (la circostanza dell’abbandono del posto di lavoro da parte dell’istante), anche questo tipo di prova può essere data o, comunque, desunta da uno specifico e positivo fatto contrario, poiché la negatività dei fatti da dimostrare non esclude, né inverte, l’onere della prova. Concludendo sul punto, premesso che “è proprio la regola della prova surriferita che assegna, in prima battuta, la dimostrazione del fatto a colui che l’afferma a fondamento del suo diritto, solo allora sorgendo la necessità, per la controparte, di contrastarne l’esito con l’opposta dimostrazione”, la Suprema Corte ha tratto la conseguenza che “solo qualora questo protocollo si sviluppi in modo equilibrato, nel rispetto delle reciproche posizioni e cadenze processuali, sarà il giudice a doverne dare una accurata e prudente valutazione (v. Cass., 26 ottobre 98, n. 10648; 13 novembre 97, n. 11243; 11 marzo 95, n. 2853), mentre se la prova del fatto costitutivo della pretesa manca, o è svalutata, anche indipendentemente dall’esistenza della prova contraria, (ad esempio per la sua inattendibilità oggettiva), non si pone un problema di bilanciamento della prova e, conseguentemente, l’esito del giudizio trova la sua soluzione in conformità alla regola dettata dall’art. 115, cod. proc. civ.”. Inoltre, passando a vaglio critico il principio di diritto enunciato nella sentenza 11 marzo 1995, n. 2853, cui si è attenuta anche la citata pronuncia n. 4760/2000, nella sentenza n. 12520 del 21 settembre 2000 la Corte di Cassazione, esaminando il caso concreto oggetto del ricorso, ha precisato che il termine “estromissione”, era stato in quel contesto utilizzato “quale sinonimo di quello di “espulsione”, e, perciò, di “licenziamento” e non potendo quindi intendersi usato – come si è invece obiettato, al fine di sorreggere le ragioni che giustificherebbero una critica negativa della affermazione del principio – come “artificio verbale di chiamare estromissione ogni cessazione del rapporto di cui non sia chiara la genesi””; con la conseguenza che “non è contestabile che la stessa esistenza del licenziamento deve configurarsi quale “fatto costitutivo” della domanda di impugnazione del licenziamento” – o, per quanto riguarda il caso di specie, del diritto all’indennità sostitutiva del preavviso -; pertanto, “ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, deve ritenersi gravante sul proponente della azione l’onere di fornire la prova dell’evento “licenziamento”, non potendo certamente ritenersi che, in materia, viga una regola di inversione dell’onere probatorio, secondo la quale il lavoratore possa limitarsi a una mera allegazione della circostanza, restando obbligato il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che il recesso sia stato dovuto ad altra causa, essendo invece sufficiente che – ai sensi della disciplina dettata in via generale dal codice in tema di ripartizione dell’onere probatorio – il convenuto si limiti alla semplice negazione del fatto costitutivo del diritto esercitato dalla controparte. Evidentemente, nella ipotesi in cui esso convenuto abbia contrapposto una difesa che sia specificamente articolata su fatti diversi da quelli posti a base della domanda avversaria, sorgerà, in concreto, un onere probatorio a suo carico, circa le eccezioni proposte, nel momento in cui la controparte abbia fornito la prova del suo assunto”.
Né, a parere del decidente, potrebbero sovvertirsi le regole generali in tema di prova nel processo civile soltanto per la particolare difficoltà che potrebbe avere il lavoratore a fornirla, perché analoghe, se non maggiori, difficoltà incontrerebbe il datore di lavoro, per il quale sarebbe arduo dimostrare di non avere intimato un provvedimento espulsivo. Peraltro, nell’ottica di esecuzione del rapporto secondo buona fede il lavoratore, magari licenziato verbalmente in un contesto riservato e senza nessun testimone, ben potrebbe tornare in azienda al fine di riprendere servizio e rendere palese e manifesto il rifiuto datoriale e la cessazione del rapporto per circostanze imputabili alla controparte.
Alla stregua di questi presupposti ermeneutici, la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare non soltanto di non avere più reso la prestazione lavorativa, ma anche che ciò sia stato determinato da un comportamento ascrivibile alla parte datoriale, che ha intimato il recesso dal rapporto. Siffatta opzione ermeneutica, maggiormente in linea con i principi generali che regolano il riparto dell’onere probatorio nel processo civile merita, a parere del decidente, un avallo definitivo alla luce del recente intervento normativo contenuto nella legge n. 92/2012, che ha riscritto l’art. 18 della legge n. 300/1970, prevedendo la tutela reale in tutte le ipotesi, tra l’altro, di licenziamento orale, con l’adozione di uno speciale rito della tutela reintegratoria da cui sono escluse tutte le altre domande non fondate sui medesimi fatti costitutivi (cfr. art. 1, commi 47 ss.). Se, infatti, il legislatore ha congegnato un rito speciale fondato sulla sussistenza di un licenziamento, anche se non adottato in forma scritta, è giocoforza concludere che chi agisca in giudizio sia tenuto a comprovare i fatti costitutivi della sua azione, ossia di avere proposto la domanda a fronte di un atto espulsivo comminatogli dal datore di lavoro.
Tribunale di Velletri, Sezione Lavoro, Dr Russo, ordinanza 20 marzo 2015.