Un decreto sancisce la fine delle Srl?

La confusione delle ultime settimane ha fatto passare in sordina una notizia che, se confermata in tutte le sue accezioni, potrebbe rivelarsi un vero e proprio tsunami per le piccole e medie imprese in Italia: un cambiamento in negativo che può avere ripercussioni molto pesanti sull’economia reale, oltretutto in una congiuntura estremamente delicata.

Veniamo ai fatti: il 14 febbraio 2019 (San Valentino, Sic.) viene pubblicato  il decreto “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, che rappresenta l’attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155;

il provvedimento introduce nuove responsabilità per le PMI. Tra queste, l’obbligo per le Srl di nominare un organismo di controllo, un revisore che scongiuri l’insorgere di possibili crisi d’impresa, denunciando allo stesso amministratore ogni irregolarità. L’ l’obbligo di nominare il revisore scatta se il fatturato o totale dell’attivo supera i 4 milioni di euro, oppure quando si supera la media di 20 dipendenti assunti full time negli ultimi due anni.

Si tratta di numeri non astronomici, comuni, ad esempio, a molte imprese manifatturiere di tradizione famigliare. Caricare un’impresa simile di ulteriori costi amministrativi, a fronte dei pesanti oneri già esistenti, è già di per sé aspramente criticabile, così come lo è l’idea che l’impresa debba pagare di tasca sua qualcuno che, di fatto, esercita l’anticamera di controllo che spetterebbe all’Agenzia delle Entrate. Un revisore che, stando al decreto, assume insieme al ruolo responsabilità civili e penali.

Un cambiamento a dir poco assurdo, e non certo l’unico dell’ultima manovra economica. Senza contare che per i soliti furbi la “scappatoia” già esiste: è facile prevedere nomine a pioggia di amministratori ultraottantenni, che quindi non rischiano il carcere per sopraggiunti limiti d’età.

Insomma, la nuova norma, già così, chiamerebbe a una levata di scudi. Ma c’è di più: con recenti modifiche le cose sono addirittura peggiorate.

Il 13 febbraio 2020 il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha approvato in esame preliminare, un decreto legislativo recante “Disposizioni integrative e correttive a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”.

All’interno di questa integrazione, è contenuta la vera “bomba”: gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti.

La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi».

Tradotto: in caso di problemi a pagare i conti, gli amministratori della società possono essere chiamati a rispondere non soltanto con il patrimonio sociale, ma anche con quello personale!

Una frase che, di fatto, cancella l’essenza stessa della sigla “Responsabilità Limitata”, che si riferisce appunto all’idea che l’azienda è chiamata a rispondere solo per il capitale sociale, e non di più. Una rassicurazione che ha permesso alle PMI la serenità di investire, assumere personale ed affrontare anche momenti difficili.

Ma con questo decreto, tutto cambia: lo spettro di una possibile rivalsa sul patrimonio personale diventa una vera e propria spada di Damocle che condiziona pesantemente le scelte societarie. A dispetto delle macchiette politiche che attribuiscono agli imprenditori barche e macchine lussuose, nella realtà sotto l’etichetta “patrimonio personale”, c’è generalmente la prima casa.

Quindi, tradotto: chi ha un Srl, a fronte di un problema di liquidità (magari dovuto al mancato pagamento di alcuni clienti e non a cattiva gestione) può ritrovarsi direttamente all’anticamera del fallimento e a dover sopperire alle richieste coi creditori di tasca propria, anche mettendo in vendita la propria casa, se necessario.

Uno scenario che può sembrare apocalittico, ma in realtà rispecchia esattamente la versione del decreto, che entrerà completamente in vigore il 14 agosto prossimo (ma in maniera graduale in tutto si prevede all’incirca un anno di “transizione”).

Se dovesse entrare in vigore così com’è, c’è da temere una vera e propria ondata di fallimenti; questo significa licenziamenti, minor gettito fiscale, un vero terremoto per l’economia con ripercussioni sulla vita di tutti. C’è da sperare che con l’emergenza che il Paese si trova ad affrontare il governo venga a miti consigli ed eviti di infierire ulteriormente sul tessuto imprenditoriale italiano, già duramente provato.

Molte serrande abbassate a causa del coronavirus rischiano di non aprire mai più. È il momento di una nuova alleanze tra imprese e istituzioni e non può certo basarsi su normative del genere, che agevolano i furbastri a discapito di chi chiede solo regole più “umane” da seguire.