Ormai possiamo esserne certi: dietro alla grande macchina del Fisco italiano ci sono degli sceneggiatori di fiction. Anzi, FiSction.
Storie che raccontano di intrighi familiari, inganni, scoperte inattese, qualche ravvedimento (operoso) e colpi di scena finali. Ma le trame preferite sono quelle “tira-e molla”, che tengono lo spettatore-contribuente incollato allo schermo (e ai moduli del 730).
Prendiamo uno dei titoli di punta: il bonus 110%. Ha avuto un’eco di pubblico tale da essere rinnovato per diverse stagioni! Nel 2023, però, il governo italiano ha fatto due conti e, proprio come molti produttori di fiction, ha deciso che, sì, sono grandi soddisfazioni, però la stiamo tirando per le lunghe, i costi salgono, quindi anche basta. E ha imposto uno stop, non certo privo di polemiche (del resto, ce le ha avute anche l’ultima stagione de Il trono di spade.) Essendo all’inizio della nuova stagione, è quindi opportuno fermarsi e fare un bello “spiegone” per capire cosa è successo, cosa accadrà ora e cosa aspettarsi per il futuro, in modo da compiere scelte consapevoli.
Procediamo per punti:
Superbonus 110%: le origini
Cominciamo dal prequel. Il superbonus non nasce dal nulla ma si basa su una normativa precedente, quella prevista dall’art. 16 bis DPR 1986/917 (Testo unico dell imposte sui redditi-Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici) che già prevedeva la possibilità di scaricare dalle imposte i costi dei lavori di ristrutturazione edilizia, entro determinati limiti (che nel tempo sono stati adeguati).
Negli ultimi anni, però, la UE ha puntato i fari sugli edifici di edilizia civile del Vecchio Mondo, “rei” di essere poco efficienti dal punto di vista energetico e quindi molto inquinanti. Sono quindi nate iniziative comunitarie per efficientarli entro il 2030 (come la discussa direttiva Case green, altro tira-e-molla ma con contorno di cavolini di Bruxelles) e i paesi membri sono stati esortati a portare avanti azioni in linea con questo obiettivo. Che è molto ambizioso, specie in paesi come l’Italia che pullulano di centri storici.
È in questo contesto che si innesta l’iniziativa del bonus 110%. Che parte bene: una legge scritta in modo agile, idonea ad essere applicata senza troppe complicazioni, ma che ahimé proprio per questo mostra il fianco a possibili abusi. Che puntualmente sono arrivati. Vediamo perché.
Bonus Casa 110%: i punti deboli
Come abbiamo scritto, la normativa nasce “light”, tanto che il primo anno non serviva nemmeno l’asseverazione da parte di un progettista: bastava una semplice dichiarazione di inizio lavori, una sorta di autocertificazione. Spoiler: adesso l’avallo del progettista è diventato indispensabile. E questo è solo uno dei tanti passi indietro che hanno portato a introdurre nuove figure di responsabilità, nuovi paletti, e che hanno complicato i moduli a tal punto da risultare incompilabili senza l’aiuto di un commercialista. Tutti dovuti a una sola ragione: l’abuso. Nel senso letterale del termine, ovvero l’utilizzo eccessivo e indiscriminato. L’ab-uso più grande, manco a dirlo, riguarda l’aspetto economico.
Tutti sono convinti che il bonus funzioni così: la ditta edile ottiene il lavoro, applica uno sconto in fattura, quello sconto viene rigirato allo Stato che rimborsa direttamente la ditta, e tutti sono felici.
Sbagliato. A questa sceneggiatura manca un attore: la banca (ma il ruolo può essere interpretato anche da assicurazioni o mediatori creditizi vari). È la banca ad assorbire il credito e ad esporsi verso la ditta che applica lo sconto: potrà poi scaricare quel credito direttamente dalle imposte che deve allo Stato. E ci guadagna anche: eh sì, perché se all’inizio le banche si esponevano per l’intero importo del bonus, a fronte delle tante richieste hanno cominciato a tirare i remi in barca e ad esporsi solo per l’80%. Non è finita: le banche potevano a loro volta cedere il credito a terzi. Che a loro volta potevano cederlo a terzi (anzi, quarti), che a loro volta potevano cederlo a… quinti, in una catena pressoché infinita, degna di ispirare Branduardi (spoiler: adesso la catena si interrompe a tre per le banche, a una per i privati).
Questo blocco però, per quanto comprensibile, è risultato inatteso, e questo ha portato molte aziende medio-piccole a trovarsi in crisi di liquidità. Ed è qui che sono cominciati i pasticci. Perché cemento e mattoni costano. E con l’innalzamento dei prezzi delle materie prime, sono arrivati alle stelle. Per molte imprese, questo è stato troppo: per questo, molti lavori si sono fermati. Per questo, molte ditte edili hanno chiuso. Hanno retto solo quelle con le spalle sufficientemente grandi, anche in termini di liquidità. Per molte altre, si è aperta la via del fallimento. A ciò si deve aggiungere che molte aziende erano spuntate come funghi proprio agli albori del superbonus, spesso come spin-off di aziende più grandi e già consolidate, per poter gestire al meglio il rimpallo di incarichi (e magari, anche dei crediti).
Sempre in tema di rimpallo delle responsabilità, è interessante notare il ruolo di due figure chiave in questa vicenda: il direttore lavori e il general contractor.
Il direttore lavori, lo dice la parola, è il responsabile che supervisiona la messa in opera, si assicura che avvenga a norma di legge e redige il SAL (Stato Avanzamento Lavori) il documento dettagliato che è necessario allegare alla pratica di Superbonus. Visto il suo compito, ci si aspetta che sia una figura super partes, o magari nominata dalla proprietà. Ebbene: il direttore lavori, in base alla legge, viene assoldato e pagato… dalla ditta appaltatrice! Questo apre la porta a inevitabili conflitti di interesse: saranno tutti così onesti da dichiarare che i lavori sono in alto mare, danneggiando chi gli paga lo stipendio?
Veniamo al general contractor. Perché non viene chiamato in italiano, ovvero “ditta appaltatrice dei lavori”? Ebbene, non è solo amore per l’inglese, c’è una ragione: il GC non coincide per forza con la ditta edile che esegue i lavori. Può anche indicare un mandante, un intermediario, che a sua volta assegna il lavoro a chi mette mano all’opera. Così si apre al subappalto, del subappalto, del subappalto, che fa da controcanto al credito che viene ceduto a Caio, che lo cede a Tizio, che lo cede a Sempronio (che al mercato mio padre comprò).
E ci stupiamo che la cosa sia sfuggita di mano?
Le conclusioni sono amare ma ci obbligano a un crudo realismo: quando si parla di leggi, le buone intenzioni non bastano. Serve che siano scritte in modo da essere il più possibile inattaccabili, e questo richiede persone in grado di pensare al bene della collettività, ma anche mali pensatori che sanno difendere quello stesso bene dall’abuso che la collettività può farne. Soluzioni semplici non risolvono problemi complessi.
E dunque, adesso cosa dobbiamo aspettarci?
Semplice: dovete aspettarvi una seconda stagione di questo articolo, dove andremo ad analizzare i casi più comuni. Stay tuned!