Danno terminale: nuova voce di danno o mero esercizio di stile di dottrina e giurisprudenza?

La giurisprudenza ha recentemente introdotto in materia di risarcimento del danno derivante da sinistri con esito mortale detta nuova voce di danno, il cui risarcimento è trasmissibile agli eredi, nel caso in cui la vittima abbia avuto, nel lasso di tempo intercorso tra l’evento e il decesso, la consapevolezza della morte imminente. Lasciamo ad altre sedi il dibattito sulla relativa quantificazione per dedicarci alla pratica applicazione che detta novità riscontra nelle aule di giustizia.

La giurisprudenza esige una “comprovata” consapevolezza della imminente morte. Ma come si dimostra detta consapevolezza in una persona in fin di vita?

Accadrà – anzi è già successo: Tribunale di Velletri, sentenza n. 26 pubblicata l’8 gennaio 2024 – che il giudice rigetti la domanda sul punto in virtù di un generico e non certificato “stato comatoso” sufficiente di per sé ad escludere pressoché automaticamente in capo alla vittima qualsiasi consapevolezza senza minimamente valutare i riscontri dei medici rianimatori  nei giorni di agonia precedenti il decesso.

A nulla vale, secondo la decisione del Tribunale, la risposta del paziente ai richiami verbali e allo stimolo tattile mediante l’apertura degli occhi, mediante l’accenno al movimento degli arti inferiori, mediante il movimento del capo e anche mediante espressioni di dolore conseguenti alla palpazione.

Convenzionalmente riteniamo che ove le risposte e i comportamenti di una persona non siano coerenti e adeguati rispetto alle aspettative sociali possa non sussistere la piena capacità di intendere e di volere  quindi la legge prevede la possibilità che un soggetto venga privato della capacità di agire in senso giuridico,  cioè della possibilità di compiere autonomamente atti che abbiano incidenza sulla propria e sulla altrui sfera giuridica. Qui il problema è altro: la giurisprudenza ritiene in assenza di risposte coerenti da parte della persona offesa – che almeno riteniamo tali secondo i nostri canoni convenzionali – di poter addirittura negare, senza nulla di scientificamente comprovato è il caso dire, la capacità di provare dolore e paura che attiene alla sfera più intima e privata di ogni essere vivente peraltro senza che possa esistere incidenza alcuna sulla sfera giuridica altrui. A mio avviso il problema andrebbe sovvertito rivendicando invece il “diritto” alla paura e al dolore proprio ed esclusivo di ogni essere vivente la cui esistenza anche in condizioni di vita disperate deve essere invece sempre presunta di diritto.  

Senza ricorrere a suggestivi – ma non per questo meno meritevoli di fiducia – racconti di chi svegliandosi da un coma riferisce di esperienze di premorte, chi può dire che in una persona in stato comatoso non vi sia alcuna consapevolezza della propria condizione? del pari dovrebbe escludersi allora anche per un malato di Alzheimer. Per quel che vale ho verificato personalmente il sorriso sul viso di una donna, malata di Alzheimer da quindici anni, quando ogni domenica i bambini venivano a giocare nel suo giardino. Non ho personalmente dubbi che in quel sorriso vi fosse consapevolezza.

La semplice mancata risposta agli stimoli esterni o meglio, la mancanza di una risposta che le nostre convenzioni sociali  ritengono coerente ad un dato stimolo esterno, non vale secondo me a escludere in capo a una persona la coscienza di sé e quindi la sua dignità. Diversamente dovremmo esigere da un pedone investito che giunga al pronto soccorso in condizioni disperate la sottoscrizione di un modulo che ne attesti comunque la capacità di intendere e di volere e quindi la consapevolezza della probabile e prossima morte al pari della sottoscrizione del consenso informato che si richiede ad un paziente che si sottopone ad un intervento chirurgico volontario.

È ovvio che se non si presume comunque la consapevolezza dell’imminente morte in capo alla vittima di un sinistro grave, almeno nel caso in cui intercorra un ragionevole lasso di tempo tra sinistro e decesso, detto danno terminale è destinato a rimanere più un caso di scuola che una concreta voce di danno di pratica applicazione.