imprenditori frontalieri

Imprenditori frontalieri: un caso reale contro la doppia tassazione

Viviamo nell’Era in cui anche una piccola impresa locale può avere relazioni d’affari internazionali. Pensate a un panettiere che fa pubblicità su Instagram, o addirittura a un privato che mette la casa in affitto su Airbnb: entrambe le aziende hanno sede in Irlanda! Le normative tributarie, invece, sonnecchiano in una dimensione che non esprime più la realtà del lavoro e dell’impresa. Come dimostra una recente vicenda che abbiamo seguito recentemente.

Ecco il caso: nel 2014, due cittadini italiani decidono di fondare una società di consulenza in Canton Ticino, per iniziare a muovere i primi passi su un mercato che sembra ricco di buone opportunità. Per mitigare i rischi di una simile avventura, decidono di non trasferirsi in Svizzera, procedura complessa e costosa, e di rimanere a vivere al di qua del confine.

La legge italiana consente di farlo, purché si rispettino determinate regole (ci concentreremo qui su quelle che interessano la nostra vicenda). Alla base di queste regole c’è la definizione della figura del “frontaliere”, ovvero “la persona residente in Italia che esercita attività lucrativa in Svizzera e fa ritorno quotidianamente al proprio domicilio”. E sono davvero tanti: per l’Ufficio Federale di Statistica elvetico, nel primo trimestre del 2024 se ne contavano oltre 79 mila solo in Canton Ticino.

Ma attenzione, non sono tutti uguali: il Fisco italiano distingue tra i frontalieri di fascia e fuori fascia. I frontalieri di fascia sono quelli che vivono in un Comune entro 22 km dal confine italo-svizzero (la famosa “fascia frontaliera”); i frontalieri che vivono al di fuori di questa linea immaginaria, sono i “frontalieri fuori fascia”. 

Questa distinzione è fondamentale perché all’epoca dei fatti comportava trattamenti molto diversi dal punto di vista fiscale: i frontalieri “di fascia” pagavano le tasse solo in Svizzera, sia che fossero dipendenti che imprenditori; la Svizzera restituiva poi una parte delle tasse raccolte sotto forma di ristorni direttamente ai comuni di frontiera. 

I frontalieri fuori fascia, invece, erano considerati fiscalmente italiani a tutti gli effetti e sottoposti agli stessi scaglioni Irpef (ma con uno “sconto consolazione”: una franchigia di 7.500 euro sul totale imponibile). 

I nostri due soci sono frontalieri fuori fascia. Ma anche i frontalieri fuori fascia possono avere una società in Svizzera: da lì possono lavorare con tutto il mondo, anche con l’Italia. L’importante è che esista una sede effettiva (non basta una casella postale) e che il lavoro avvenga effettivamente da lì. La normativa parla di “stabile organizzazione”, un concetto certamente da svecchiare, perché si presta a troppe interpretazioni e fraintendimenti. Per prassi, l’ideale sarebbe fondare una Sagl, l’equivalente svizzero della Srl italiana, in modo da creare un’entità giuridica ben definita e separata dall’ambito privato. Ma per fondare una Sagl, la Svizzera richiede il versamento in solido di ben 20 mila franchi (circa 20 mila euro al cambio attuale) e non è possibile sostituire l’apporto in denaro con apporto in lavoro o in beni strumentali, o versarlo solo in parte, come accade in Italia. 

I due soci non dispongono di tanta liquidità. Del resto, non gli servirebbe: la loro è un’attività di tipo consulenziale, non necessita di complesse strumentazioni, non prevede grandi spostamenti e non produce né commercia beni materiali (quindi, non ci sono questioni doganali da tenere in conto). È, insomma, più vicina a uno studio professionale che a una vera e propria impresa. 

Ma in Svizzera non esiste la figura giuridica dello studio professionale, né quella della società tra professionisti. Esiste però la Snc, ovvero la società in nome collettivo che (e qui sta il punto dell’intera vicenda) non è una società nel senso italiano, ma una semplice aggregazione di operatori economici, che possono limitarsi ad apportare all’aggregazione semplicemente il proprio lavoro. Ripiegano quindi su quella; affittano un ufficio a Lugano e iniziano a lavorare da lì. All’inizio, le entrate sono ancora poco regolari. 

L’attività però procede bene, loro ogni anno presentano regolarmente sia in Svizzera sia in Italia la dichiarazione annuale in cui dichiarano i redditi esteri per quello che effettivamente sono, ovvero redditi da lavoro. Per la stessa ragione, lo studio commercialisti che li segue decide di non fargli compilare il quadro RW, ovvero la casellina della dichiarazione dei redditi in cui vanno dichiarati “investimenti e attività finanziarie all’estero”, perché sa di non avere davanti dei ricchi investitori che hanno comprato azioni di una multinazionale del cioccolato, ma due professionisti che guadagnano solo in virtù del lavoro che svolgono. Inoltre, il quadro RW va compilato solo quando tali investimenti superano una certa soglia (all’epoca, 10 mila euro, poi portato a 15 mila proprio nel 2014) e il conto corrente della giovane start-up era ancora ben al di sotto di quella cifra. 

Fin qui tutto bene, quindi. Almeno in apparenza…

Nel 2019, a seguito di un controllo di routine in dogana, arriva un avviso di accertamento di Agenzia delle Entrate, che chiede di incontrarli fisicamente presso la sede più vicina. In breve: i funzionari dell’Agenzia hanno visto la dichiarazione dei redditi del 2014 e non gli torna che abbiano dichiarato i loro introiti svizzeri (lo ricordiamo, regolarmente dichiarati) come reddito da lavoro. Essendo titolari di una società, avrebbero dovuto dichiararli come reddito d’impresa e compilare debitamente il quadro RW. Anche perché la loro azienda è una società di persone, e questo getta una luce ambigua sulla natura del loro conto corrente (societario? personale?). In realtà, l’ambiguità non esiste perché persino in Svizzera esiste un Fisco che esegue controlli, e non è concepibile che una persona prelevi fondi o effettui spese da un conto societario senza un’adeguata giustificazione (e la settimana bianca a Saint Moritz decisamente non lo sarebbe, nemmeno per loro). 

La disputa si prolunga sul piano burocratico a causa dell’arrivo della pandemia, ma l’Agenzia delle Entrate (con i suoi tempi) porta avanti la pratica; quando si giunge al limite della prescrizione (la scadenza era stata prorogata proprio a causa della Covid) scatta l’accertamento con le sanzioni. A quel punto uno dei due soci si rivolge al nostro studio per presentare ricorso.

Noi prendiamo in carico l’incartamento e presentiamo ricorso alla Corte di giustizia tributaria di Milano per far accertare che:

  • il reddito dichiarato dal cliente è reddito da lavoro e non un reddito finanziario, perché la società in nome collettivo svizzera (codici civili svizzero e italiano alla mano) non ha niente a che fare con la società in nome collettivo italiana;
  • la cifra era in ogni caso inferiore a quanto previsto dalla legge, per cui il quadro RW non andava compilato in ogni caso.

A fine 2024, arriva la sentenza: il ricorso viene accolto su tutta la linea. La motivazione? Intanto, la cifra di cui si parla è oggettivamente inferiore alla famosa soglia dei 10 mila euro, e questo basterebbe di per sé a giustificare il ricorso. Ma cosa ben più importante, l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate sulla natura della società in nome collettivo avrebbe determinato una doppia imposizione: il reddito dichiarato, infatti, era già stato tassato in Svizzera, e le imposte relative erano state correttamente versate al fisco svizzero. 

Vi gira la testa? Effettivamente si tratta di una vicenda alquanto complessa! Ma il problema sta alla base: la normativa che disciplina l’attività frontaliera si basa su principi vetusti e sorpassati. La recente revisione dell’accordo di tassazione, entrata in vigore nel 2024, non scalfisce nemmeno la superficie del problema, anzi, sembra quasi aggravarlo (basti pensare alla famosa “tassa sulla salute” e alle restrizioni sullo smart working). 

Il punto è che ci si ostina a considerare l’attività frontaliera solo come una questione fiscale e non dal punto di vista dello sviluppo economico e produttivo. Vedere i due Paesi che fanno il tiro alla fune sul confine con i redditi dei frontalieri non è un bello spettacolo… perché non concentrarsi sulla crescita, invece? Se si vuole aumentare il gettito fiscale, è su quello che dovremmo puntare, non su multe che nascono dall’interpretazione di norme spesso concepite qualche era fa. Continuiamo a sperare, e a sognare! Consoliamoci intanto con del buon cioccolato: svizzero, naturalmente!